Nel ‘78 Susan Sontang, scrittrice e intellettuale statunitense, nonché amante della fotografia (e della fotografa Annie Leibovitz), scriveva su l’onnipresenza dell’immagine e su l’incalzare dei messaggi persuasivi e provocatori; e lo faceva nel suo saggio “Sulla Fotografia”, che lascia ben intendere come la scrittrice avesse predetto una vera e propria inondazione della fotografia con una serie di problematiche legate al valore della stessa, futuro appannaggio di tanti, forse troppi.
Dal 1839 ad oggi pare che sia stato fotografato tutto, e il potere della fotografia, nonché il suo cuore pulsante,ovvero quello di diffondere conoscenza, è stato prepotentemente scalzato da un’utilità molto più futile:diffondere apparenza. Oggi più che mai fotografare significa “appropriarsi della cosa che si fotografa”; stabilire non più un rapporto con il mondo per cercare di conoscerlo, ma fotografare e fotografarsi per “apparire” vivi nel mondo(e sui Social). Pubblicare le fotografie della nostra vita o di quello che ci piace catturare attraverso l’obiettivo (anche del cellulare) è diventato il mezzo specchio della nostra società per cercare di catturare il momento e frenar nel’inesorabile trascorrere e decadere: l’arte ha sempre avuto una missione verso l’eterno.
Da tutte le epoche e tutti gli angoli del mondo l’artista ha perseguito l’obiettivo di guadagnarsi l’immortalità con le sue opere, e il migliore tra questo riusciva ad emergere,guadagnandosi il suo posto nell’olimpo. Ma questo ormai è un oceano talmente vasto e pieno di pesci che saltare fuori riesce sempre più difficile, e quelle poche opere che rappresentano lo scatto eterno restano giù, sul fondo, dove nessuno può vederle.